01 Ott Bagnacavallo, 26 Settembre 2024
Bagnacavallo, 26 Settembre 2024
Giovedì, 26 settembre 2024, Renata M. Molinari per San Michele
Malati, affranti e preoccupati come siamo,
adoperiamoci perché la pace atterrita respiri,
[…]
non più le assetate crepe del nostro suolo
s’imbratteranno le labbra del sangue dei nostri figli,
non più la guerra scaverà trincee nei nostri campi,
né gli zoccoli ferrati dei cavalli delle opposte fazioni
feriranno i fiori. Occhi lampeggianti d’odio
come fulmini in un cielo tempestoso,
benché tutti di una stessa natura,
tutti nutriti della stessa sostanza ,
si sono di recente fronteggiati nell’urto fratricida,
nel furibondo macello della guerra civile.
Ora[…] non vi sarà più strage fra amici, fratelli alleati…
Questi sono versi dall’Enrico IV di William Shakespeare (I,1).
Parlano di guerra, della peggiore fra le guerre, quella che contrappone fratelli, soggetti che dovrebbero essere solidali, fa morire persone, crepa la terra, trasforma i campi in trincee, ferisce i fiori, e la vegetazione tutta; le azioni degli uomini ricadono sulla terra, che, ferita, si leva contro l’uomo.
La vicenda di Enrico è più complessa di questi versi, ma ho voluto iniziare da qui, perché spesso le immagini che testimoniano questa e le precedenti alluvioni, sono accompagnate da frasi come: “sembra la guerra”, “credo che la guerra si presenti così”, “è come un terremoto”…
Come, come, come: similitudini che fanno da ponte fra realtà diverse, ma accomunate da uno stesso sentimento di paura e di impotenza, realtà di emergenze che vorremmo lontane, ma che sentiamo minacciosamente vicine.
Nelle situazioni di emergenza sono richieste molte competenze specifiche, alcune altamente specialistiche, accompagnate dalle necessarie strumentazioni e dalla capacità di usarle.
E sono richieste azioni immediate, concrete, una quotidianità portata all’estremo, l’estremo dell’emergenza, appunto: dar da mangiare, fare da mangiare, vestire, pulire … riaffiorano ricordi lontani, dal catechismo: le opere di misericordia … qualcuno le ricorda, forse:
Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini… consolare gli afflitti, e ancora: sopportare pazientemente le persone moleste.
In questo operare, viene da chiedersi quale sia il posto della cultura: cosa posso fare io, cosa può fare chi è impegnato nella vita culturale e artistica e può mettere a disposizione competenze che spesso, nel sentire comune, sembrano uno svago – sia pure sacrosanto – un di più, forse qualcosa da accantonare, sia pure momentaneamente…. O da utilizzare per fini altri, rispetto al proprio specifico operare.
Questo sembra valere ancora di più per chi, come me – come noi in Bottega, o nel teatro della città – opera nella più effimera delle arti: quella teatrale…. E allora le domande si affollano: domande, domande…
Nel 2012, ho realizzato un progetto con un gruppo di allievi della Paolo Grassi di Milano, affiancati da giovani studenti dell’Aquila – la straordinaria capacità dei giovani, quando lavorano insieme, di capire le reciproche domande, di trovare risposte comuni, una lingua comune, per rispondersi! Era un progetto di scrittura e osservazione, nella città dell’Aquila, devastata dal terremoto. La città era ancora militarizzata, la zona rossa severa: noi abbiamo ottenuto un lasciapassare per percorrerla, sia pure in giorni e orari limitati.
A volte eravamo seguiti dagli sguardi addolorati dei cittadini che non potevano camminare le strade che a noi erano permesse.
Alla fine di quasi 3 mesi di lavoro abbiamo preparato una serata di restituzione, o lezione aperta, all’interno dei Cantieri dell’Immaginario, una rassegna estiva pensata da e per la città.
Per l’occasione ci venne messa a disposizione uno spazio a ridosso della chiesa di Santa Maria Paganica, ancora chiusa e tutta piena di armature.
Noi avevamo accesso a una piccola navata laterale, per i leggii, l’acqua, le poche cose di cui avevamo bisogno.
Ci trasferimmo lì e iniziammo a “provare”, se così si può dire: tutto doveva concludersi in una giornata.
Da subito ci raggiunse una signora, piuttosto anziana, che in piedi, (non erano ancora state portate le sedie) seguiva il nostro lavoro.
Chiesi se fosse parente di qualcuno dei ragazzi: nessuno la conosceva. Lei restava lì, senza una parola, a guardare noi, o VERSO di noi.
Mi avvicinai.
– Buongiorno, signora, è presto, la presentazione è questa sera
– Non sono qui per la presentazione
– … e per cosa????
– Io vorrei entrare nella mia chiesa, ma non posso
– Mi porta dentro, lei che può?
Erano passati 3 anni dal terremoto….
Tre anni di esclusione… dalle proprie case…
La accompagnai, vigile, ma a riguardosa distanza, custode silenziosa del suo ritorno nella sua chiesa..
Parlammo poi dell’accaduto con i ragazzi.
All’inizio dominava il sentirsi superflui, forse anche il sentimento di essere inopportuni, fuori luogo: tutto il nostro daffare, sia pure tanto curato, serviva a noi; i bisogni dei nostri – diciamo – spettatori, erano più immediatamente concreti: MI PORTA DENTRO?
Poi quel MI PORTA DENTRO? ha cominciato a lavorare… e anche questa esperienza di essere custodi di un incontro…
Quello che sembrava un passo indietro, rispetto alle nostre aspettative, al nostro impegno, alle nostre ambizioni, anche, si è rivelato un modo non previsto di continuare la nostra opera.
A Volte fermarsi, arrestare il passo, è l’unico modo di vedere il tuo cammino in prospettiva, l’unico modo per continuare a camminare, nel mondo delle persone e non solo…
Vorrei unire gli uomini
Agli animali
Alle piante
Alla materia
Ma anche agli angeli
Agli spiriti
……
Mondo che sei dentro di me
Mondo che sei fuori di me
Mondo che da solo non potrò mai rovesciare
Cambiare
Plasmare
Trasformare
Che senso ha, se solo tu ti salvi…
Così cantava alla fine del Novecento Antonio Neiwiller, un grande poeta della scena.
Che senso ha, se solo tu ti salvi…
PORTARE DENTRO, custodire l’incontro fra le persone: anche UNA sola persona, che si incontra di nuovo, o per la prima volta, con ciò che le è PROPRIO.
L’arte come custodia: creare e custodire le condizioni perché questo incontro sia possibile.
In fondo questo processo è alla base del racconto e della rappresentazione, di ogni racconto e rappresentazione
Portare e portarci dentro a ciò che è nostro, che magari non abbiamo frequentato per tanto tempo, che non sapevamo di avere come ricchezza a disposizione.
E quando dico noi, non penso a singole individualità, ma ad esistenze (magari anche le nostre, anche se non lo sapevamo) colte in una dimensione più ampia e generativa…
Lo dice un maestro del teatro del Novecento, il polacco J. Grotowski: anche cantare una canzone, con la competenza, gli strumenti e le domande dell’arte è un modo di incontrare il mondo, incontrarsi nel mondo, “stare al mondo”, come si dice qui da noi.
Riprendo alcuni passi dal suo Tu es le fils de quelqu’un, scusandomi col Maestro, per aver trasferito in un contesto diverso da quello originario, le sue considerazioni.
…chi è la persona che canta la canzone? Sei tu?, ma se è una canzone di tua nonna, sei sempre tu?
[…] Ma è possibile che tu vada ancora più lontano, all’indietro, verso un tempo difficile da immaginare. Quando per la prima volta qualcuno ha cantato questa canzone. Sto parlando di una vera canzone tradizionale, che è anonima. Da noi si dice: è il popolo che ha cantato. Ma in mezzo al popolo c’era qualcuno che ha cominciato. Hai la canzone, devi chiederti dove è cominciata.
Forse era il momento di badare al fuoco della montagna, dove qualcuno pascolava gli animali.
E per scaldarsi al fuoco ha cominciato a ripetersi le prime parole. Non era ancora la canzone, era l’incantazione. Un’incantazione originaria che qualcuno ha ripetuto. Esamini la canzone e ti chiedi dove si trova questa incantazione originaria.. In quali parole? Forse quelle parole sono sono già sparite? […]
Ma se sei capace di muoverti con questa canzone verso il principio, non è più tua nonna che canta, ma qualcuno della tua progenie, del tuo paese, del tuo villaggio, del luogo dove era il villaggio, il villaggio dei tuoi genitori, dei tuoi nonni. Nel modo stesso di cantare è codificato lo spazio. In montagna si canta in un modo e in pianura si canta in modo diverso. […] Gradualmente ritrovi le prime incantazioni. Ritrovi il paesaggio, il fuoco, gli animali, forse hai iniziato a cantare perché hai avuto paura della solitudine. […] Chi era la persona che ha cantato così? Era giovane o vecchia? Alla fine, scoprirai che sei figlio di qualche luogo. Come si dice in un’espressione francese: “ Tu es le fils de quelqu’un” [Tu sei figlio di qualcuno]. Non sei un vagabondo, sei di qualche parte, di qualche paese, di qualche luogo, di qualche paesaggio. C’era gente reale attorno a te, vicino o lontano. Sei tu, duecento, trecento, quattrocento o mille anni fa, ma sei tu. Perché colui che ha cominciato a cantare le prime parole era figlio di qualcuno, di qualche posto, di qualche luogo; allora, se ritrovi tutto ciò, tu sei figlio di qualcuno. Se non lo ritrovi, tu non sei figlio di qualcuno; sei separato, sterile, infecondo.
Tu sei figlio di qualcuno: Sei di un tempo, sei di un posto[…] in tutto questo lavoro si procede sempre di più verso il principio, sempre di più verso “ stare in piedi nel principio”.
Stare in piedi, non nel passato, ma nel principio: per noi, forse, significa ricominciare a immaginare il futuro.